La recente celebrazione del Sinodo per il Medio Oriente, da noi seguita con particolare attenzione e grazie anche ai contributi del nostro fratel Alvaro, hanno suscitato il mio interesse nei riguardi delle antiche chiese cosiddette “non calcedonesi” (“nestoriani” e “monofisiti”) che dopo venti secoli di eroica testimonianza sono vive e ci interpellano da diversi punti di vista, quasi in risposta a quei “profeti di sventura” che ritengono che la Chiesa si stia oramai avviando verso il suo tramonto!
Mi è venuto in aiuto un ottimo studio di Antonio Olmi: « Le vicende intricate – scrive il nostro autore -, talora tragiche, sempre difficili dei cristiani non calcedonesi attraverso la lunga storia che li separa dai momenti cruciali del rifiuto [dei concili] di Efeso e di Calcedonia ci ha condotto al punto di svolta che separa quindici secoli di diffidenza e di scomuniche reciproche dalla decisione dei cristiani di considerare seriamente la fondatezza della propria separazione, chiedendosi una volta per tutte se il dissenso sulla persona e le nature di Cristo non sia in realtà il frutto (come alcuni hanno affermato sin dall’inizio!) di un colossale equivoco, che non avrebbe mai dovuto provocare una così dolorosa e duratura divisione nell’ambito della chiesa »: “Il consenso cristologico tra le chiese calcedonesi e non calcedonesi (1964-1996), p. 214″.
Visitando il cammino delle singole chiese, si rimane colpiti soprattutto da una storia segnata ininterrottamente da violente persecuzioni, emarginazioni, oppressioni e soprattutto di martirio. Un aspetto quest’ultimo che accompagna i passi dei cristiani (anche) di oggi, dalla Nigeria, Filippine, Iraq, Pakistan, India, Nuova Dehli, ecc. giungono le stesse notizie: “la strage nella vigilia di Natale”, “cristiani a rischio”, ecc. Il grido sconcertante dei cristiani che oggi vivono in Medio Oriente si alza e ci fa avvertire la nostra impotenza di fronte a delle “forze maggiori”. Quando la liturgia natalizia ci fa celebrare subito dopo la nascita del Salvatore il martirio di Santo Stefano e quella degli Innocenti non fa altro che ricordarci l’intima unità tra fede e martirio. Quel “segno di contraddizione” profetato dal Vecchio Simeone nel tempio di Gerusalemme continua a confondere gli spiriti e, di conseguenza, a far trapassare con la spada il cuore della Madre, la Chiesa.
« In questo contesto – scrive B. Forte -, emerge una nuova attenzione alla ‘cattolicità’, intesa sia secondo il suo significato di universalismo geografico, reso più che mai attuale dai processi di ‘globalizzazione’ del pianeta, sia secondo il senso di pienezza e totalità, che rimanda all’integralità della fede e della attualizzazione piena della memoria del Cristo: non si deve esitare, insomma, a riconoscere che il cristianesimo futuro o sarà più ‘cattolico’ (nel forte senso teologico), o rischierà la totale irrilevanza in ordine alla salvezza del mondo »: Dove va il cristianesimo?, p. 153.
Rivisitando il concili dell’antichità, particolarmente quelli del IV-V secolo e che sono stati alla base delle prime divisioni nella Chiesa ci si rende conto che, paradossalmente, l’intento dei padri conciliari è stato sempre quello di mantenere l’unità della Chiesa.
In campo ecumenico sono stati fatti passi notevoli, ma la strada è ancora lunga. I cristiani di oggi dobbiamo avvertire una forte “sete di santa koinonìa“, ossia una “nostalgia di unità”. “La Chiesa – scriveva frère Charles – ha tempo, io passo, ma essa rimane perché guidata dallo Spirito”.
Che il 2011 sia per tutti noi un nuovo inizio.
fratel Oswaldo
Di grande speranza per un buon cammino verso l’unità può essere la dichiarazione che Giovanni Paolo II e il patriarca della Chiesa Siro ortodossa Zakka I rilasciarono nel 1984: “Innanzitutto sua Santità Paolo II e sua Santità Zakka I confessano la fede della loro due Chiese, fede formulata dal Concilio di Nicea del 325 d.C., comunemente conosciuto come “Credo di Nicea”. essi comprendono oggi che le confusioni e gli scismi avvenuti tra le loro Chiese nei secoli successivi in nessun modo intaccano o toccano la sostanza della loro fede, poichè tali confusioni e scismi avvennero solo a causa di differenze nella terminologia e nella cultura e a causa delle varie formule adottate da differenti scuole teologiche per esprimere lo stesso argomento. Conseguentemente non troviamo oggi nessuna base reale per le tristi divisioni e per gli scismi che avvennero poi tra noi circa la dottrina dell’incarnazione. Con le parole e nella vita, noi confessiamo la vera dottrina su Cristo nostro Signore, malgrado le differenze nell’interpretazione di questa dottrina che sorsero all’epoca del Concilio di Calcedonia”. Nel 1994 papa Giovanni Paolo II e il patriarca della Chiesa assira di tendenza nestoriana, Mar Dinka IV dichiararono che “prescindendo dalle divergenze cristologiche che ci sono state, oggi noi confessiamo uniti la stessa fede nel Figlio di Dio che è diventato uomo perchè noi, per mezzo della sua grazia, diventassimo figli di Dio. Dora in poi, noi desideriamo testimoniare insieme questa fede in colui che è Via, Verità e Vita, annunciandola nel modo più idoneo agli uomini del nostro tempo e affinchè il mondo creda nel Vangelo di Salvezza”. Nella stesso documento “la Chiesa cattolica fa un grande passo verso la Chiesa assira in quanto accetta il termine nestoriano (all’epoca condannato dal Concilio di Efeso) madre di Cristo. Più precisamente si parla di madre di Dio, da parte della tradizione cattolica, e di madre di Cristo, da parte della tradizione assira” riconoscendo l’esattezza e la legitimità di entrambe le espressioni”. ( citazioni da D.Hercsik, Il Signore Gesù,EDB, 2010, pag.293-294. Alla fine del paragrafo l’autore afferma l’importanza di queste dichiarazioni nell’affermare il comune deposito di fede pur nella distinzione delle formulazioni concettuali. Credo che distinguere tra deposito della fede e formulazioni dovrebbe essere un’operazione compita da ogni cristiano.