Apprendiamo dal quotidiano Avvenire (sabato 5 marzo) questa notizia: «In occasione dello studio dell’esortazione apostolica postsinodale “Verbum Domini”, Julio Cabrera, vescovo di Jalapa [già vescovo del Quiché], ha presentato la recente pubblicazione della Bibbia tradotta in “k’iché”, la più popolare delle 22 lingue maya prevalenti nel Paese.



Tale traduzione è il frutto di 23 anni di lavoro di un gruppo. Un momento storico per la Chiesa del Guatemala». In effetti, l’avvenimento ha avuto luogo lo scorso 18 febbraio a «El Vaticanito», così chiamata simbolicamente l’area dove risiedono differenti enti ed istituti ecclesiali tra cui la Conferenza Episcopale del Guatemala.

Il nome Quiché non ci è nuovo, ma non è questo il luogo per ritornare ai soliti e tristi racconti del passato. Diciamo in poche parole che tale nome in qualche modo racchiude le vicende della maggior parte dei popoli della «Amerindia» secondo il concetto dello scrittore peruviano Raúl Haya de la Torre per designare i popoli autoctoni del continente americano. Alcuni anni fa uno studioso e attento conoscitore dei popoli latinoamericani, scriveva: «A dieci anni dalla pasqua di un illustre profeta dei nostri tempi, difensore instancabile degli indios dell’Ecuador e di tutta l’America Latina, mons. Leonidas Proaño, in omaggio alla sua memoria possiamo discernere oggi con maggiore precisione la risurrezione indigena che egli ha profetizzato e per la quale ha impegnato la sua vita e la sua persona come vescovo della Chiesa. Certamente assistiamo nei tempi attuali, sia come semplici testimoni che come partecipanti attivi, a un momento storico eccezionale. La storia, come la piscina di Betesda, viene scossa ora dal dito di Dio, e coloro che, riconoscendosi malati o mossi dalla fede nel Risorto, hanno il coraggio di gettarsi in quest’acqua agitata sono sanati, si alzano in piedi, prendono il loro lettuccio e camminano liberati» (Eleazar López Hernández, Teologia India. Gli indios latinoamericani narrano la loro fede, EMI, Bologna 2004, 159). Non possiamo – campanilismi a parte – rimanere indifferenti a questo tipo di argomenti che rientrano pienamente in quella dimensione di universalità che la Fraternità si propone di vivere. Poi, come non pensare a tutti gli sforzi e sacrifici di frère Charles nel suo tentativo di imparare la lingua Tamahaq e a come – rischiando persino la sua salute – si dedicò con tutte le sue forze alle diverse traduzioni che sarebbero servite «per migliorare la condizione di vita dei Tuareg», o che sarebbero diventate gli strumenti indispensabili per coloro che avrebbero annunciato il Vangelo alle «pecore più abbandonate»? Il 15 gennaio 1906 scriveva a sua cugina: «La risoluzione che ho preso oggi è di lavorare con tutte le mie forze attorno ai lessici, alla grammatica, alle traduzioni della Sacra Scrittura, tutti lavori che faccio per facilitare l’opera di coloro che verranno dopo di me nel campo del Padre di famiglia». Forse esagero, ma con un pensiero un po’ ardito direi che il nostro «Missionario nel Sahara» sarebbe contento della notizia da noi riportata!

fratel Oswaldo