«Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attendere un altro?». È una domanda che non solo riassume la storia d’Israele ma condensa la storia, gli avvenimenti, l’arte, il folklore di tutti i popoli che sono in attesa da secoli; un avvento che fascia il mondo e lo porta avanti, perché è una domanda che riassume anche la storia di ciascuno di noi.
Una domanda-aggancio di una speranza che con l’andare del tempo si è fatta ansia, talvolta paura, in attesa della salvezza. È sconcertante come Gesù nel vangelo si inserisca abitualmente nell’atmosfera ordinaria in cui siamo abituati a vivere tutti i giorni. Gesù si inserisce nella trama grigia e uniforme che noi stessi intrecciamo col nostro vivere. Un mondo fatto di uomini di poco coraggio, più interessati alla terra che al cielo. Un mondo dove si applicano leggi fisse… Eppure basterebbe un lampo, una grossa rivelazione un fatto straordinario, e tutti crederebbero, tutti s’accorgerebbero della
salvezza.
Gesù si inserisce nell’ordinario e ci invita a trovare lo straordinario che c’è non fuori ma dentro di noi. Ci invita ad essere attenti, riflessivi e nella vita ordinaria scoprire la presenza ed il messaggio di Dio nella semplicità di una rivelazione, in una parola senza toni di esaltazione, negli occhi di un fratello bisognoso che diventa così per noi «teofania».
«Sei tu… », sì, è lui ma se lo cerco nel silenzio e nella riflessione, tra le cose ordinarie, fra i piccoli, fra coloro che per diritto sono i possessori della buona novella… «dite a Giovanni: i poveri ricevono il vangelo».
Che questo sconcerti (è capitato anche al Battista e non siamo i primi e tanto meno gli ultimi!) è logico perché Dio non è quasi mai del nostro parere e per dargli fiducia occorre farsi violenza. Dio ci supera e ci sconcerta.
«Coraggio! Non temete, Dio viene a salvarvi! Rallegratevi con gioia e tripudio…» incalza Isaia nella liturgia. Forse sta qui il nostro non vedere il Signore, non riconoscerlo nell’ordinario meraviglioso che ci avvolge, non saperlo ammirare con gioia in quanto c’è di lui nel cristianesimo e anche dove manca il nome «cristiano»: manchiamo di gioia. Eppure la gioia è la misura della nostra fede come, d’altra parte, la fede è il motivo della nostra gioia. Questa è la domenica che già preannuncia la gioia natalizia e la gioia natalizia ha un nome: Gesù.
Troppo spesso siamo convinti che la gioia sia un sentimento spontaneo dell’animo, sia una cosa nostra, per cui in certi momenti la possediamo e in altri no. Ma non è così: la gioia nasce solo da una profonda esperienza religiosa dall’incontro con la persona adorabile di Gesù. Quale Gesù? Il Gesù storico, quello di Nazareth, che lavora, che soffre, che muore oggi, e che ha la possibilità di mettersi in comunicazione con me infinitamente di più di qualsiasi amico che ho accanto. Tale è la fede e tale è la gioia che formano il cartello indicatore che qualcosa deve avvenire, qualcosa deve cambiare, che tutto deve
sempre ricominciare, deve rinnovarsi. Per questo la bibbia non è che la storia di uno che deve venire, una lunga attesa del «Signore venuto, che viene e verrà» per questo la preghiera di ieri e di oggi rimane sempre: «Vieni, Signore Gesù!».
fratel Gian Carlo