L’annuncio delle dimissioni del Papa l’abbiamo appreso, qui in fraternità, praticamente in tempo reale e così abbiamo seguito – direi minuto per minuto – gli sviluppi e soprattutto i primi commenti da ogni parte.
Uno di noi (non facciamo nomi!) si è commosso fino alle lacrime leggendo nel gesto di Benedetto XVI un “segno dei tempi” dato alla Chiesa di oggi e forse a tutti gli uomini di buona volontà.
I nostri sentimenti di gratitudine nei confronti di papa Ratzinger sono iniziati pochi mesi dopo la sua elezione a successore di Pietro. Forse pochi ricordano che la beatificazione del Servo di Dio Charles de Foucauld era già stata fissata per la domenica 15 maggio 2005, solennità di Pentecoste, ma la morte di Giovanni Paolo II (2 aprile) determinò il rinvio dell’evento. Una sensazione di incertezza non solo sulla data ma anche sulla stessa celebrazione punzecchiava il cuore di quanti avevano a lungo collaborato (ad esempio fr. Leonardo, nella foto) e atteso tale celebrazione. Con grande sorpresa l’annuncio della nuova data arrivò in tempi piuttosto brevi, infatti, il 13 novembre 2005, frère Charles finalmente veniva iscritto nell’albo dei Beati. Al termine della concelebrazione eucaristica Benedetto XVI è giunto nella basilica di San Pietro, dopo aver incensato e venerato le reliquie dei nuovi beati, prima di impartire la benedizione apostolica ai presenti, pronunciò queste parole di saluto:
«Cari fratelli e sorelle in Cristo, rendiamo grazie per la testimonianza data da Charles de Foucauld con la sua vita contemplativa e nascosta. A Nazaret ha incontrato la verità dell’umanità di Gesù, invitandoci a contemplare il mistero dell’Incarnazione; laggiù egli ha compreso molto sulla vita del Signore, che voleva seguire in umiltà e povertà. Ha scoperto che Gesù, che si è fatto pienamente come noi, ci invita alla fraternità universale, che ha potuto vivere più tardi nel Sahara, nell’amore di cui il Cristo ci ha dato l’esempio. Come prete, ha messo l’eucaristia e il vangelo al centro della sua esistenza, le due tavole della Parola e del Pane, sorgente della vita cristiana e della missione della Chiesa».
Mi ha sempre colpito che il Papa teologo fin dall’inizio del suo pontificato abbia indicato alla Chiesa innanzi tutto la via dell’incontro personale con Cristo quale primo compito del singolo credente. Questo l’inizio solenne della prima lettera enciclica: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un novo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est, n. 1). Come non pensare alla frase celebre di frère Charles «da quando ho saputo che c’era un Dio non ho potuto fare diversamente che vivere per lui solo»?
Ebbene, al termine di una lunga vita donata totalmente a Cristo e alla Chiesa, Papa Benedetto ci lascia un insegnamento ancora più grande che è così ben espresso in questo passaggio sconvolgente: «Sono ben consapevole che questo ministero [petrino], per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando» (cf. Dimissioni, testo ufficiale). È difficile non pensare alla preghiera di Mosè descritta in Esodo 17,8-13:
«Amalek venne a combattere contro Israele a Refidim. Mosè disse a Giosuè: “Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalek. Domani io starò ritto sulla cima del colle con in mano il bastone di Dio”. Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalek, mentre Mosè, Aronne, e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere, era più forte Amalek. Poiché Mosè sentiva pesare le mani dalla stanchezza, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalek e il suo popolo passandoli a fil di spada».
Senza lasciarci impressionare dal contesto di guerra, quindi di violenza, e dal genere letterario epico del racconto, non mi sembra esagerato il paragone tra il “vecchio Mosè” intercessore e il “papa emerito” che sostiene la Chiesa con la sua preghiera e ci dà l’esempio di fare altrettanto a favore di tutta l’umanità.
Se tutti sono rimasti meravigliati ed edificati dal coraggio del Papa, e persino i non credenti l’hanno salutato con un “tanto di cappello”, mi piace immaginare i Tuareg, che frère Charles amò sino alla fine, che salutano Benedetto XVI con un: “Santità, tanto di turbante”!
Fratel Oswaldo