Di Massimo Bernabei
È capitato inaspettato in regalo – da questi piccoli fratelli, dal loro priore Gian Carlo e da tutta la comunità – un pellegrinaggio in Terra Santa. L’unico desiderio di viaggio che un sedentario come me nutriva da tempo. Non finirò mai di ringraziare. E forse non finirò mai nemmeno di «ruminare» le immagini – non solo fotografiche –, le sensazioni, le suggestioni, i suoni, i luoghi, i volti che sono rimasti nella mente e nel cuore, abbracciati arruffati intrecciati legati.
Molti ricordi restano ancora indistinti, altri sono ben stagliati su sfondi inusuali per noi occidentali occidentocentrici.
Tutto ciò rende (ancora?) impossibile azzardare una sintesi. Mi limiterò – forse vigliaccamente – a raccontare qualche flash, qualche istantanea qua e là, che possa almeno fungere da stimolo a chi legge per saperne di più e magari decidere di andare a vedere, a vivere, da vicino.
Per cominciare, i colori e gli odori della fraternità di Nazaret, ripercorrendo i passi che frère Charles percorse.
L’ospitalità dei fratelli: il rasoio e la schiuma da barba che Paolo fa trovare lì sulla mensola del bagno, – dovessero, mai successo!, perdersi i bagagli –; il thermos di un italianissimo caffè pronto sul tavolo, ancor prima dell’alba, per turisti dalla partenza precoce; i fiori e le piante, amorevolmente accudite da Alvaro e osservate con occhio curioso, quelle «grasse», da Agostino, piantate a rallegrare i sensi, in tutti i sensi. Ancora, Alvaro che annaffia gli alberelli del rosario da trapiantare, ad ottobre, all’Eremo delle beatitudini
Il «Buon giorno» sonoro e gioioso di Hossein, «operatore ecologico» che passa in fraternità a prendere il caffè, a scherzare con te come se ti conoscesse e lo conoscessi da sempre.
La cappella, tra Gesù e Charles: sottovoce o nel silenzio la preghiera, l’eucaristia, gli accompagnamenti musicali di Marco, maestro anche di altri accompagnamenti, e pensi ai bambini di Sefforis o a quelli dei fratelli guanelliani lì vicino.
Tre e mezzo di notte. Qualcosa ti sveglia. Una voce che si spande all’intorno e riecheggia e si incrocia con altre. Dai minareti che arrivando hai visto svettare numerosi sul profilo della città si leva la voce del Muezzin che chiama alla preghiera. A quest’ora di notte? ti chiedi. E pensi alle proteste di quanti, dalle nostre parti, mal sopportano il suono delle campane all’«Ave Maria» mattutina delle sette o sette e mezzo.
Quel canto riecheggerà per altre quattro volte durante il giorno, e per altre quattro volte i fedeli musulmani si prostreranno in direzione della Mecca per pregare il Dio di Abramo. Mi viene in mente che al mio paese hanno costruito, al posto di quella distrutta da un terremoto, una brutta chiesa «postmoderna», per di più spostandone l’altare ad Occidente, da Oriente che era. Di quanto spesso preghiamo noi, potremo parlare un altra volta.
La Basilica dell’annunciazione a Nazaret – un inquietante déjá-vus di cui ora conosco la ragione: il progetto è dello stesso architetto che ha disegnato, negli anni ’90, una chiesa a Lioni (AV) –. Dentro è custodita la casa di Maria, ricca di tutt’altra vissuta semplicità. Poi, la sinagoga e la chiesa di rito greco; la Fontana della Vergine, il Monte del Precipizio, che «mi sono comprato» con un bel capitombolo.
E a Betlemme la Grotta, visitata e rivisitata, quasi da solo, in fortunati e commossi momenti di calma. E dove abbiamo concelebrato un’intensa eucaristia, partecipata anche da persone incontrate lì. Kalimera, ha augurato una signora sorridendo, all’«Andate in pace».
Poi Gerusalemme – saltando passaggi intermedi e spericolate gimkane dei due nostri autisti – Alessandro detto Sandro e Josetta non pronunciatelo Giosetta.
Lì, il Muro del Pianto e la Spianata delle Moschee, letteralmente su due fronti e per un’infinità di motivi. Dall’uno all’altro si passa sotto inquietante controllo militare.
Stava avviandosi al tramonto lo Shabbat, quando ci siamo avviati al Muro, verso il quale stavano già convergendo numerosi Ebrei osservanti, alcuni accompagnati da tutta la numerosa famiglia. Ci è sembrato naturale indossare la kippà come ci saremmo rispettosamente tolto il cappello all’entrare in chiesa, o in casa d’altri. E come una volta nelle nostre chiese, le donne da un lato, gli uomini dall’altro.
L’atmosfera del lato maschile richiederebbe un aggettivo adeguato, che non trovo. Definiamola singolare, se non fosse che lì tutto è plurale.
Rabbi che leggono cantano proclamano la Thorà da rotoli custoditi in teche preziose e altri che la leggono – ma alcuni sembrano discuterne animatamente con interlocutori invisibili. Colpisce che nessuno sembri disturbare nessuno. E basta allontanarsi qualche metro per accostarsi al muro, dalle fessure ormai colme dei bigliettini ai quali anche Giovanni Paolo volle aggiungere il suo. Davanti a questo muro viene spontanea e commossa una preghiera per questa terra martoriata dall’interno e dall’esterno. E non si sentono più, per quanto essa dura, le voci e i canti. E nessuno ti invita a una prece frettolosa.
Ti torna alla mente un altro muro, quello che il più illuminato statista degli ultimi centocinquant’anni non aveva visto, e che tu come lui hai attraversato, arrivando, sotto controllo militare. E anche un cartello, fittamente presente alle rotonde della strada che corre nella valle del giordano, al confine tra Israele e i Territori palestinesi. Non hai avuto il coraggio di fotografarlo perché c’è scritto che se da lì decidessero di passare cittadini israeliani, potrebbero essere abbattuti e questo anche per la legge dello Stato di Israele. Ogni commento addolcirebbe la tragedia.
Presso il muro del pianto, luogo dell’antico tempio che gli Ebrei progettano ancora di ricostruire – e il tempo sarebbe giunto, dato che la grande moschea adiacente è finita da un pezzo – c’è la Spianata delle Moschee, sacra ai musulmani e più volte protervamente profanata dai sionisti. Nel 2000 fu lo stesso Ariel Sharon – generale e politico israeliano di primo piano, all’epoca capo dell’opposizione – ad attraversare la spianata con la sua numerosissima scorta armata, in segno di dominio anche su quella parte della città santa.
È venerdì, giorno sacro all’Islam, e la spianata, intorno alla dorata Cupola della Roccia, è affollata di scolaresche di bambine e bambini, che gioiosamente rispondono in coro agli inviti delle loro maestre e dei loro maestri. All’ombra di un albero secolare, un gruppo di uomini adulti siede davanti a leggii dove è aperto, presumibilmente il Corano e pregano o studiano a voce sommessa. Spira una brezza molto piacevole, ma non solleva né polvere né foglie secche e nemmeno cartacce: tutto è pulitissimo e l’uomo in abiti dignitosamente eleganti sta pulendo con la scopa gli scalini della fontana percepisce l’odore della sigaretta che una pellegrina sta fumando e le rivolge un fermo «No smoking!». La scena induce a credere che non gli importi del fumo, forse nemmeno della cenere che cadrebbe a terra, ma della scaralità del luogo sì.
Si va verso il Santo sepolcro ma la lunga fila compatta ci fa desistere, per ora. Tenteremo in orario più favorevole, il giorno dopo. Intanto seguiamo la devota processione, informale e a dire il vero rumorosa che si reca sul luogo della crocifissione e della roccia spaccatasi alla morte di Gesù.
Ritentiamo la visita al Sepolcro, e con miglior fortuna, il giorno dopo. Pochi minuti di fila. Ma entriamo nella grotta con la morte nel cuore, per aver assistito alla cacciata di un giovane, accusato dal cerbero all’ingresso – ortodosso per turno, garante della modestia femminile soprattutto – di essere siriano. Non ne capiamo la ragione e anche per loro formuliamo una preghiera toccando la pietra della deposizione.
Un giro del suck è obbligatorio magari per portare a casa qualche ricordo. Ma è domenica e l’artigiano del legno d’ulivo, molto bravo e cristiano, tiene, giustamente la porta chiusa. Un giro per quei vicoli affollati, pieni di idiomi e di profumi e di colori gradevolissimi è davvero un’immersione in un altro mondo. Se ne esce malvolentieri. E si cede perciò alla tentazione di assaporare con voluttà un gusto di casa: un eccezionale caffè espresso – lasciàtelo dire a me che lo prendo amaro – in un occidentalissimo ed elegante centro commerciale scoperto dal fiuto di Catia.
Ci abbiamo lasciato un pezzo di cuore. Non nel caffè, e nemmeno nel centro commerciale. Ma in quella Terra di Abramo, di Giuseppe, di Maria e di Gesù. Di essa, e di tante persone incontrate o anche solo sfiorate con lo sguardo sentiremo a lungo la nostalgia.
Che bello rivedere voi e i luoghi a me così cari e spesso frequentati, come pure,
rivedere Agostino e l’ambiente illuminato con le nuove lampade, grazie alla sua
bravura e abilità.
La bellezza di questa “terra” è impossibile dimenticarla, come non si può
dimenticare la gentilezza e la delicatezza dei “fratelli”.
Mi mancate! Un abbraccio
pellegrinaggi ne ho fatti molti,devo dire che questo mi restera´ dentro per i luoghi e le persone che ho conosciuto. Vi portero´ tutti nel mio cuore. Annarita