abuelaishLo scorso 21 ottobre il nostro fratello Marco pubblicò su questo mezzo una presentazione del libro “Non Odierò” di Izzeldin Abuelaish (Piemme, 2011), medico palestinese di fama internazionale. Forse non l’avrei letto se non avessi visto sul nastro rosso la frase «Il David Grossman palestinese», frase che sul momento mi è sembrata un po’ ardita!

Ho letteralmente «divorato» il libro e credo di aver provato un po’ tutti i sentimenti, persino la commozione – cosa non molto frequente nel sottoscritto! – perché per la prima volta non mi sentivo solo lettore ma addirittura protagonista di un racconto drammatico e tuttavia pieno amore, misericordia e fiducia nell’uomo. A un certo punto Abuelaish descrive lucidamente i momenti crudeli che hanno preceduto e seguito l’esplosione dove si trovavano le sue tre figlie e una sua nipote…

Successivamente, riflettendo su questi fatti l’Autore pronuncia delle parole che ricordo di aver letto già da qualche parte, non so perché ma il pensiero non mi ha lasciato fino a quando ho fatto tombola: «un soldato, avvolto in un lungo cappotto color kaki, colto nell’atto di sparare a una madre che tiene il suo bambino fra le braccia. A distanza ravvicinata, per di più. Come poté quell’uomo premere il grilletto?» (Peter Hellman, L’albero dei giusti. Storie di ebrei sottratti all’Olocausto, San Paolo). Siamo in due contesti storici diversi, d’accordo, ma chi «preme il grilletto», fosse anche contro un solo essere umano è come se lo facesse contro l’umanità intera.

strisciaIzzeldin Abuelaish è un musulmano convinto, sa che tutto è nelle mani di Dio, ma altrettanto sa che l’uomo può determinare l’andamento della storia. È convinto, come la maggior parte degli israeliani e i palestinesi, che le armi hanno fallito. Adoperando le sue categorie mediche, sostiene che l’odio avvelena l’essere umano nella sua totalità e che la malattia di cui hanno bisogno di liberarsi sia il pregiudizio contro l’altro. Ha un sogno: la coesistenza tra israeliani e palestinesi. Come Luther King sognava di vedere un giorno i ragazzi, bianchi e neri, frequentare la stessa scuola, sedersi nello stesso ristorante e divertirsi nello stesso campo giochi. Come il grande Nelson Mandela che dopo gli anni della prigionia si propose e realizzò la grande sfida di trasformare una società strutturata sulla suprema ingiustizia dell’Apartheid, che disumanizzava la stragrande maggioranza delle persone di colore condannandole a essere non-persone, in una società unica, unita senza discriminazioni, democratica e libera.

Mandela ha raggiunto il suo scopo – ha scritto Leonardo Boff –  scegliendo la via della virtù, del perdono e della riconciliazione. Perdonare non è dimenticare. Le piaghe sono sempre lì, molte di esse sono sempre aperte. Perdonare vuol dire non permettere che l’amarezza e lo spirito di vendetta pronuncino l’ultima parola e determinino l’andamento della storia. Perdonare è liberare le persone dalle catene del passato, voltare pagina e cominciare a scrivere un’altra a quattro mani, di neri e di bianchi insieme.

Non ero convinto se scrivere o meno questi pensieri, ma credo che il tempo di avvento che stiamo vivendo in qualche modo ci imponga di non chiudere gli occhi o far finta di niente. «Nulla è impossibile a Dio» ci ha ricordato domenica scorsa il vangelo di Luca. D’altronde se attendiamo i cieli nuovi e la terra nuova, la nostra preghiera dev’essere una richiesta incessante a favore della pace: «Farà cessare le guerre sino ai confini della terra, romperà gli archi e spezzerà le lance, brucerà con il fuoco gli scudi» (salmo 28);  e il nostro sguardo rivolto costantemente verso Gerusalemme: «Sia pace sulle tue mura» (salmo 122), è la benedizione del salmista; la nostro potrebbe essere «sia pace nei tuoi territori e in tutto il Medio Oriente».

fratel Oswaldo