Per introdurci nella quaresima abbiamo pensato ad un brano del nostro amato Carlo Carretto. Sepriamo che possa essere per tutti un invito alla riflessione, alla preghiera e… all’azione.
«Su, mangia, perché il cammino è troppo lungo per te» (1Re 19,7).
Il Dio che è, il Dio che mi cerca da sempre, il Dio che si mette in rapporto con me come presenza, come vocazione, come guida, non s’accontenta di dirmi qualcosa, di indicarmi qualcosa, di chiedermi qualcosa. Fa ben di più.
Egli che è Vita sa che la sua creatura non può far nulla senza di lui; sa che il suo bimbo morrebbe di fame senza il suo pane. Ma il pane dell’uomo è Dio stesso, e Dio dà se stesso per nutrire l’uomo. Solo la vita eterna può nutrire l’uomo destinato a vita eterna.
Il pane della terra lo può nutrire solo per la terra che finisce; lo può sostenere solo fino alla frontiera dell’Invisibile. Se l’uomo vuol bucare la frontiera dell’Invisibile, non gli è sufficiente il pane dei suoi campi; se vuole marciare sui sentieri dell’Invisibile, deve nutrirsi di un pane che viene dal cielo.
Il pane che viene dal cielo è Dio, e Dio diventa cibo all’uomo che cammina nell’Invisibile.
C’è nella storia del profeta Elia la più precisa indicazione del piano di Dio rispetto all’uomo, la più straordinaria avventura dell’uomo che cerca appassionatamente Dio e che si lascia condurre sulle misteriose strade della contemplazione, al di là delle cose, al di là di se stesso, al di là della storia umana, al di là della frontiera, con un cibo dato da Dio stesso.
Come Abramo è il capostipite della razza degli uomini che credono, come Mosè è il simbolo di chi marcia nel proprio esodo verso la Terra promessa, così Elia è il prototipo di chi va al di là delle visioni terrene, al di là della meditazione e del ragionamento, al di là della concezione umana delle cose di Dio.
Pensiamo un momento a lui. Elia è un uomo impegnato, e impegnato fino in fondo; animato dallo «zelo» per Jahvè, ha fatto tutto quello che ha potuto e dovuto – e forse anche di più – per stabilire il tipo di «parrocchia» conforme ai suoi sogni e alla sua visione del bene. […]
La rivelazione di un Dio Amore andava nettamente al di là del ragionamento di Elia, come del resto dei primi uomini sulla terra.
È più facile, è più secondo la cattiveria dell’uomo pensare a Dio come al forte, all’invincibile, al castigatore, al Dio degli Eserciti.
Ed ecco che Dio trascina Elia al di là delle sue idee. Intanto lo mette in crisi, lo rende debole, perché e così difficile spiegarsi con chi vince, con chi ha sempre ragione, con chi è ben installato.
Elia perde.
I potenti si mettono contro di lui: è addirittura minacciato di morte. Ed eccolo al limite del deserto, stramazzato sotto un ginepro, dire al suo Dio: «Ora basta, Jahvè, prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri» (1Re 19,4).
L’uomo in crisi comincia a vomitare ciò di cui è troppo pieno e, in genere, l’orgoglio ferito.
«Non sono migliore dei miei padri». Ecco, Elia si credeva davvero migliore degli altri. Aveva tanto lavorato per Dio, ma con Dio aveva mescolato se stesso, la sua riuscita, il suo trionfo.
È così bello vedere il trionfo di Dio allineati in processione dietro di Lui! Quanto piace questo trionfalismo nostro, camuffato dietro il trionfo di Dio!
Ma non basta.
L’uomo in crisi incomincia ad esagerare e si mette a correre su una strada contraria alla prima. Se prima ha esagerato nell’azione, ora maledice l’azione. Se prima faceva troppo, ora, che è sconfitto, non vuole più far nulla!
Si chiude nel suo isolazionismo. «Lasciami, Signore…».
E invece il Signore incominci: «Mangia e cammina…».
E gli fa trovare un pane misterioso accanto al capezzale.
«Mangia ancora, che la tua strada sarà lunga…».
Questo cibo dato ad Elia sul bordo del deserto è il simbolo di un cibo che nutrirà l’uomo: il Sacramento. E lo nutrirà di vita eterna capace di andare al di là delle frontiere del mondo.
La frontiera è rappresentata dal deserto.
«Ed Elia camminò quaranta giorni e quaranta notti per giungere all’Oreb, il monte di Dio».
Quaranta nel gergo biblico significa molto, molto…
Ci vuole pazienza ad attraversare il deserto; ci vuole impegno nella purificazione che il deserto ci procura.
Deserto significa innanzi tutto «abbandonare».
Sì, abbandonare le sciocchezze con cui abbiamo voluto costruire la nostra povera esistenza; abbandonare le nostre idee a cui eravamo così cocciutamente legati; abbandonare soprattutto un atteggiamento nostro davanti al cielo ed alla terra ed espresso così: «Avevo ragione! Vedrete che avevo ragione!».
No, per giungere alla contemplazione del volto di Dio bisogna proprio perdere la ragione.
E non solo l’idea di aver avuto ragione, ma la ragione stessa!
Finché tu ragionerai, non sarai pronto alla visione di Dio.
È per questo che la contemplazione comincia quando tu non mediti più, non interroghi più ma… ti lasci fare.
«Lasciati fare», dice una canzoncina, «da chi ti conosce», ed è senza volerlo il titolo che ognuno di noi può scriver su un capitolo importante della propria esistenza: il capitolo in cui entra nella contemplazione.
Lasciati fare…
Elia si lascia finalmente fare, e giungendo all’Oreb, dopo la purificazione del deserto, è pronto alla rivelazione di Dio. […]
La natura del sacramento è soprannaturale; la natura della contemplazione è passiva.
È nella contemplazione che realizzo la pienezza della mia vita terrena e mi nutro di autentica vita eterna, proprio perché sono destinato alla vita eterna.
No, non è nel fuoco, non è nel terremoto, non è nel vento che Elia realizzerà se stesso, ma nel silenzio. Quel silenzio onorato dalla presenza di Dio, dove tu hai sentito la tua anima ridotta ad un debole e fragile stelo. Ma uno stelo capace di riempirsi della rugiada di Dio e divenire spiga per il granaio di Dio.
Carlo Carretto, Il Dio che viene.
Grazie..ancora una volta sentiamo Carlo vicino a noi e che ci indica la strada da percorrere in questo periodo.
Un abbraccio Gianpiero Manuela