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Le due solennità che ricorrono nel mese di marzo (san Giuseppe e l’Annunciazione), e di solito in Quaresima, ci fanno pensare al cambiamento di rotta che caratterizzò le vite di Maria e di Giuseppe: hanno vissuto altrimenti, a causa di Gesù. Non si è trattato di una scelta di vita personale, ma piuttosto dell’accoglienza di un dono, il dono di Dio.

Mentre preparavo qualche intervento sulla vita consacrata (religiosi e religiose) sono rimasto sorpreso dalla quantità sconfinata di letteratura e materiali sull’argomento. A seconda degli autori, si sottolinea ora le difficoltà ora le speranze, con toni più pessimisti che ottimisti. Ad esempio: «I giovani non scelgono più la vita consacrata perché nessuno prende l’autobus che è diretto al deposito»; oppure questa domanda diretta a un «povero» relatore: «Secondo lei, qual è la flebo di cui ha bisogno oggi la vita consacrata?»; ancora, un titolo un programma: «Sedotti e abbandonati?»; e per concludere, una testimonianza: «Un giovane mi ha detto che i religiosi sono persone brave e simpatiche, ma quando entri nelle loro case ti accorgi che i loro gusti sono come quelli dei nonni»… Incuriosito da quest’ultima affermazione ho provato a fare un piccolo sopraluogo. Premetto che le nostre camere sono accessibili e mai chiuse a chiavi, come in una famigliola: entro nella prima e mi trovo davanti a due poster, don Camillo e Totò. Tombola!

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Al di là di quello che si pensa o si dice non vedo il perché dobbiamo per forza essere ottimisti o pessimisti quando vi è la via della serenità. Forse ci siamo abituati un po’ troppo alla parola crisi e alla fine ci vogliono convincere che siamo in crisi. Ma non lo siamo. Vale per la famiglia come per la comunità dove la vita quotidiana è fatta di relazioni e continuo movimento, si nasce e prima o poi si arriva alla meta. Ciò che conta è come si vive l’oggi della propria esistenza, magari nel segno della gratuità e dell’azione di grazie. «Nella vita religiosa – scrive L. Manicardi – il rendere grazie è un atto fondamentale per la vita comune stessa. L’azione di grazie personale per i fratelli e le sorelle con cui si vive è un pilastro della vita comune. Grazie agli altri, io posso vivere un’esperienza di comunione, di carità, di amore. Abituare l’occhio del cuore al rendimento di grazie per le concrete persone con cui si vive la vita comune, aiuta profondamente la qualità della vita fraterna».

La vita comune, «a causa di Gesù e del vangelo» è un vivere altrimenti. È accogliere nella gioia le persone concrete che, a loro volta, mi hanno accolto. La comunità può diventare una famiglia, così come una famiglia può diventare modello di una comunità religiosa. La vita comune è il luogo dell’accettazione reciproca: accettare le nostre debolezze e quelle degli altri è esattamente il contrario della sdolcinatezza. «La vita è complessa – diceva papa Francesco ai superiori generali lo scorso mese di novembre –, è fatta di grazia e di peccato. Se uno non pecca, non è uomo. Tutti sbagliamo e dobbiamo riconoscere la nostra debolezza. Un religioso che si riconosce debole e peccatore non contraddice la testimonianza che è chiamato a dare, ma anzi la rafforza, e questo fa bene a tutti».

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La Fraternità è il luogo dove ci si dona: una comunità non è semplicemente un gruppo di persone che vivono insieme e cercano di sopportarsi. È un luogo di risurrezione e di conversione dove persone molto diverse le une dalle altre camminano umilmente verso la stessa speranza e celebrano lo stesso amore. La comunità deve diventare anche il luogo della pazienza: al cuore della vita comune ci deve essere la fiducia reciproca che nasce dal perdono quotidiano e dall’accettazione delle nostre debolezze, delle nostre povertà e di quelle degli altri. Ma questa fiducia non nasce in un giorno; per questo occorre tempo per formare una vera comunità. Solo così diventa anche il luogo della crescita: ognuno dei membri di una comunità è responsabile della propria crescita e della crescita dell’intera comunità. Occorre serenità perché nulla si fa in un solo giorno. Per vivere in Fraternità bisogna saper accettare la lentezza della crescita, nostra e degli altri. Bisogna accettare il lento fluire del tempo e farselo amico. Bisogna accettare che l’altro cammini con un passo diverso dal mio, spesso più corto, altre volte più lungo.

Ma ogni discepolo è testimone del regno e della risurrezione, è chiamato a vivere altrimenti.

fratel Oswaldo jc