Un nuovo giorno è spuntato e, accendendo la radio, si odono voci di guerra, come capita da molto tempo a questa parte.
Voci di guerra che si coniugano con l’assordante silenzio della parte del mondo «che conta» e che dice di essere in pace. Ma, si sa, ci si abitua a tutto. Paesi come la Siria o l’Egitto sono spariti dalle testate dei quotidiani, non perché i problemi siano risolti, ovviamente, ma in quanto le loro tragedie non fanno più notizia.
Mentre in occidente ben poco si conosce di ciò che sta accadendo in Iraq e Siria o, se preferite, nel nuovo Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi autoproclamatosi, nello scorso giugno, califfo dello Sato Isalmico dell’Iraq e della Grande Siria. Califfo viene dal verbo khalafa che significa «succedere». Il califfo dunque è il «successore» del Profeta Maometto. I califfati si sono succeduti, a suon di guerre e omicidi, nel corso dei secoli fino alla caduta dell’impero ottomano. Da allora il titolo di «Califfo» è rimasto vacante.
Al-Baghdadi non nasce isolato come un fungo ma proviene da un movimento politico Jihadista molto estremo che usa metodi considerati eccessivi addirittura dal movimento ben più noto di al-Qaeda.
A questa frangia sunnita fondamentalista sta a cuore il ripristino dell’impero arabo che ha come legge la Sharia nella sua applicazione più severa ed ha iniziato a diffondersi proprio dall’Iraq «bonificato» dalla dittatura ad opera dei democraticissimi Sati Uniti d’America.
Qui, come in siria, la situazione dei cristiani, alla caduta dei dittatori (…al-Assad ancora resiste) è drammaticamente degenerata. Il tempo delle persecuzioni è riaffiorato e un’ondata di nuovi martiri sta attraversando il mare della cristianità.
Dinanzi all’imposizione della nuova situazione i cristiani hanno tre opzioni: il pagamento di una tassa salata per rimanere nella loro terra natia, la conversione all’Islam, il martirio. Se si vogliono evitare queste possibilità non rimane che la fuga, abbandonando la propria casa, senza alcuna valigia, avendo come unica proprietà i vestiti che si hanno addosso. Sono moltissimi i nostri fratelli nella fede che hanno dovuto lasciare i loro villaggi dirigendosi verso il nord, per tentare di trovare un rifugio dalla furia omicida di questo nuovo stato. Sono numerose le immagini e i video che raccontano di crocifissioni, esecuzioni sommarie, corpi di cadaveri esposti come trofei, …
Le nostre stesse Sorelle (Piccole Sorelle di Gesù), che vivevano nella famosa Mossoul, fanno parte di questa colonna di disperati che si trovano ora a vivere da sfollati-rifugiati, senza nulla, nell’intento di credere ancora in un futuro possibile. E di loro si stenta ad avere notizie.
E questo avviene in una regione del mondo dove il cristianesimo ha radici antichissime e dove i cristiani hanno svolto un ruolo fondamentale di integrazione tra le culture, costituendo così una parte essenziale di una società perennemente in trasformazione.
Tutto ciò sta avvenendo nella completa indifferenza del mondo occidentale che appare assopito in un torpore ideologico in cui la storia, la cultura, la religione e soprattutto il cristianesimo con i suoi valori, non trovano più spazio.
L’amara testimonianza di una nostra anziana amica è eloquente: «a nessuno interessa di noi: agli arabi perché non siamo mussulmani, agli ebrei perché siamo arabi, ai cristiani occidentali perché siamo orientali».
A livello ecclesiale la domanda si fa ferita lancinante: come possiamo definirci fratelli del Signore, Popolo di Dio, Chiesa di Gesù se non ci sta a cuore la sorte di tanti, tantissimi, nostri fratelli? Dov’è il grido accorato e unanime che sale dalla Chiesa per smuovere le coscienze?
L’impressione è che stiamo vivendo nell’ora del Getzemani, ma unicamente nella parte del «sonno dei discepoli». Siamo incapaci di vegliare e di essere sentinelle che scrutano l’orizzonte per vedere quanto accade, annunciando il bene e denunciando il male.
fratel Marco jc