Dopo la mattinata illuminata dall’intervento di don Luigi Ciotti, il convegno prosegue nel pomeriggio presso il Teatro Subasio di Spello con i saluti di apertura del Sindaco (Sandro Vitali), dell’assessore alla cultura regionale (Fabrizio Bracco) e del presidente dell’azione cattolica italiana (Franco Miano) che introducono le relazioni successive tratteggiando fratel Carlo come uomo della parola e della penna che insegna ai cristiani, ma anche ad ogni uomo, come alfiere dell’autenticità e della fragilità umana e come persona che ha saputo fondere e far incontrare azione e contemplazione. “Alfiere di autenticità”, che va ricercata attraverso lo strumento della fede, libera dai condizionamenti e dal potere.
Tracciamo di seguito una breve sintesi delle tematiche sviluppate dai relatori.


Ernesto Preziosi (storico, docente dell’Università di Urbino) ci ha aiutato ad approfondire l’età della fanciullezza e giovinezza di fratel Carlo, quindi la sua formazione: egli nasce il 2 aprile 1910 da padre e madre contadini che vivono una fede semplice e grazie ai quali può vivere un infanzia serena e di pace, una fede aderente alla vita ed alla realtà dei campi piemontesi. Carlo stesso elogia i suoi genitori per la loro piccolezza, “erano fatti apposta per credere e per sperare”, apprende da loro il potere di meravigliarsi per il creato e l’amore per gli uomini.

Tra i vari trasferimenti ed una vita di famiglia migrante a causa del lavoro e di eventi climatici Carlo trova nell’oratorio Salesiano di una parrocchia di Torino e nella Gioventù dell’Azione Cattolica uno strumento per diventare socialmente più adulti e più aperti al bene comune, viene stimolato a diventare apostolo per i propri coetanei e forma sempre più il suo stile basato sulla ricerca continua di autenticità e verità, ricerca senza fini di polemica, ma sempre con l’intenzione di rendere ragione della propria fede.
è in questa fase del suo cammino che vive due delle sue tre “conversioni”: la prima a 18 anni dopo una confessione da un frate in occasione di una missione popolare, la seconda a 23 anni quando incontra Gedda e si sente chiamato ad una consacrazione nel mondo. E’ durante questo periodo che Carlo acquisisce il senso ed il calore della Chiesa come comunità di fratelli, popolo di Dio e non gerarchia piramidale.

Luciano Caimi (Università Cattolica del Sacro Cuore – sede di Brescia) ha approfondito un tema poco conosciuto, quello del periodo vissuto da Carlo nei contesti scolastici sardi tra il 1940 ed il 1942.
Egli viene inviato come direttore didattico a Bono e mostra da subito un grande amore per questa terra povera e rurale, un grande affetto per la scuola, gli insegnanti ed i piccoli, stimola continuamente i docenti a svolgere con passione il proprio lavoro. Carretto non vedeva il suo trasferimento in Sardegna come un “esilio”, ma come un’occasione di testimonianza del Signore ed intreccia così gli impegni professionali con quelli apostolici: “io sono sempre esiliato, ma allegro. E’ una gran cosa essere missionari e se il Signore non lo impedisce mi piacerebbe morire missionario”. Mal visto dal regime fascista a causa della popolarità e della indifferenza verso gli indirizzi specifici del fascismo, Carlo manteneva una profonda vita di preghiera e di riflessione: “Occorre ridurre le chiacchere e impegnarmi maggiormente nella preghiera”, “parto con un’unica grande certezza: la mia miseria e la mia piccolezza spirituale”.
Forse la sintesi migliore è quella posta sulla targa della piazza a lui intitolata a Bono nel quale viene ringraziato dalla cittadinanza per il suo ruolo di “messaggero di amore e speranza” nei tragici anni del secondo conflitto mondiale e per l’ardore con cui “promosse cultura, elevazione umana e alto spirito di fraternità cristiana gettando il seme di fondamentali opere sociali”.

Paolo Trionfini (direttore Istituto Paolo VI per la storia dell’Azione Cattolica e del movimento cattolico in Italia) si è concentrato sul periodo svolto da fratel Carlo nella GIAC (Gioventù italiana dell’Azione Cattolica) come presidente nazionale della stessa. l’idea è quella di un ritorno al Vangelo e di un impegno nella società da parte dei giovani che parta da una capillare ed approfondita formazione religiosa; per lui la Giac doveva essere “forte, preparata e combativa”. I giovani cattolici dovevano ovunque far sentire la loro voce ed il loro peso anche numerico per giocare un ruolo importante nella gioventù politica italiana. tuttavia Carlo si distingue anche per l’ansia irrefrenabile e la denuncia di un cristianesimo vecchio e borghese, spesso solo di facciata; vede e promuove invece una maggior partecipazione del laicato.
Le sue linee di indirizzo per l’associazione (da qui arriveranno le divergenze con Gedda fino alle dimissioni umili e silenziose – anche se sconvolgenti – del 1952) è quella della reincarnazione dei cristiani nel mondo non però attraverso alleanze politiche: “I cattolici hanno compiuto molta strada, ma la loro macchina rischia di girare a vuoto…bisogna riprendersi l’aspetto INTERIORE…i progetti si fanno con l’adesione volontaria di ciascuno alla passione di Cristo”.
Nel 1954 Carretto diventerà fratel Carlo ed entrerà nella comunità dei Piccoli Fratelli legati alla figura di Charles de Foucauld.

Giorgio Campanini (università di Parma) ha infine dipinto la figura di fratel Carlo come riformatore, pienamente inserito negli insegnamenti del Concilio Vaticano II, tratti in particolare da tre suoi scritti.
In “Famiglia Piccola Chiesa” (1949) l’istanza innovatrice di Carretto si può notare in due aspetti:
– il recupero del significato positivo della corporeità e dell’amore umano (contro la visione sessuofobica presente in quell’epoca) con la valorizzazione della vocazione alla famiglia
– il recupero della Sacra Scrittura (il testo diventa infatti in un certo senso una spiegazione del Cantico dei Cantici).
Nel best seller “Lettere dal deserto” si evidenzia come l’azione ceda il passo alla contemplazione: “Dopo venticinque anni mi ero accorto che sulle mie spalle non gravava proprio niente e che la colonna era falsa, posticcia, irreale, creata dalla mia fantasia, dalla mia vanità. avevo camminato, corso, pedalato, organizzato, lavorato, credendo di sostenere qualcosa; e in realtà avevo sostenuto proprio nulla. Il peso del mondo era tutto su Cristo Crocifisso. Io ero nulla, proprio nulla”. E quindi anche la visione della Chiesa non è più quella della macchina organizzativa in difesa della cristianità, ma del dono di Dio, della chiamata a lodare il Signore e a donarsi totalmente a Lui e agli uomini, nostri fratelli.
“Lettera a Pietro” (1986) è invece un breve scritto di tre pagine ma denso di spunti di riflessione sul rischio che la Chiesa (istituzione) diventi essa stessa un idolo dimenticando che solo Dio conta. da qui lo stimolo all’abbandono da parte della Chiesa dell’atteggiamento trionfalistico, la rinuncia ai privilegi, l’abolizione delle distanze contro un ripiegarsi su se stessi…occorre ritornare ad essere Chiesa dell’incontro e del dialogo senza macchia e senza rughe.
Caldi e carichi di affetto sono stati infine gli interventi del numeroso pubblico presente.

Giovanni Marco