Chiedo umilmente ai teologi di passarmi questa immagine, questo segno che mi ha aiutato in tutta la vita.

Eccola: l’uomo nasce sulla terra e, come chicco di grano, inizia il suo cammino tra l’arido e l’acqua.

È tutta una faccenda in divenire, tant’è che se uno volesse spiegarsi cos’è e cosa fa un chicco di grano nella sacca del seminatore, o buttato nel solco, le risposte non sarebbero così chiare ed esaurienti.

Si sa che è un chicco di grano, turgido di vita e si sa che non ha vita lunga.

Muore nel solco e su di lui spunta un piccolo stelo verde. Poi lo stelo cresce e si fa robusto e, a un metro di altezza circa, vedi su di lui spuntare la spiga con trenta, quaranta, cento chicchi come dice la parabola del seminatore.

Ecco: e qui i teologi sorridano.

La terra è il luogo della nascita e della morte del chicco; lo stelo è il deserto della purificazione, la spiga è la pienezza del regno.

Mi piace questa immagine, perché mi consola.

So che dovrò morire, so che ciò che ho fatto ha dell’incompleto, ma so anche che avrò tutto il tempo per maturare, rivedere, ripensare la mia esistenza. […]

(E Dio vide che era cosa buona, AVE, 2008, 94-5).

Commento

Carlo Carretto è già molto malato e ha 78 anni quando scrive questo parole in un libro che pubblicherà a pochi mesi dalla morte. Se non vi si troveranno grandi novità rispetto alla produzione editoriale precedente, “E Dio vide che era cosa buona” porta il segno della maturazione nel confronto con il senso della vita, della sofferenza, dell’ingiustizia, del peccato, ma con lo sguardo sempre rivolto all’eternità. Con la certezza, che è la speranza cristiana, di un Padre in cui si può confidare, con cui si può parlare come da bambino a papà. Un Padre autentico e sincero nell’aver creato i suoi figli, in Gesù-Salvatore, come «cosa molto buona».

Ed è proprio a partire da questa maturazione lungo gli anni che Carlo ci punzecchia con il paradosso della fede: facciamo, ci agitiamo, programmiamo, vinciamo, ci ammaliamo, pecchiamo soprattutto, ma… crediamo che qui sulla terra siamo solo alle «scuole elementari» della vita? Crediamo che la vera vita comincia nella morte?

È tutta una faccenda in divenire… nella pazienza della fede

Ciò che per prima cosa risalta è il divenire dell’uomo. Ecco il cuore dell’immagine utilizzata: «La terra è il luogo della nascita e della morte del chicco; lo stelo è il deserto della purificazione, la spiga è la pienezza del regno».

C’è un cammino di vita, c’è un cammino di fede che passa per gioie, speranze, tristezze ed angosce di noi uomini (GS 1), ma è in divenire, quindi incompleto nell’oggi; sarà pienezza nel Regno.

Carlo non è interessato alle sottigliezze della scienza teologica: come fa ad accadere tutto questo al seme-uomo? È importante davvero il tecnicismo? Basta osservare che la spiga è frutto di silenzio, nascondimento del seme sotto terra, che per la verità non ha vita molto lunga, e di un equilibrio tra acqua e sole… Il seme germoglia e cresce, ma come, il contadino stesso non lo sa (Mc 4,26-27).

Si sa, però che questo cammino avviene nel tempo, dunque richiede la virtù della pazienza. Da non confondere con la passività nell’affrontare il presente, essa è segno di profonda speranza: chi è paziente è certo che la sua attesa non verrà delusa, che la vita ha un senso anche quando sembra non produrre frutto, né tantomeno «rose e fiori», che dalla croce e dal fallimento secondo la logica umana, si raccolgono covoni abbondanti di vita eterna.

Non a caso la pazienza è dono e segno della speranza come atteggiamento per vivere il nostro tempo. Il paziente non vive restandosene con le mani in mano, semmai vive con le mani giunte… infatti la pazienza è detta virtù dei forti: solo chi si affida a Colui che è la forza (Sal 28,8) sopporta e affronta senza lagne o depressioni le contrarietà e le sofferenze quotidiane.

Non riusciremo mai ad essere pazienti come Dio lo è con noi, ma proviamo a chiedergli la stessa pazienza che è stata di Abramo, centenne, sulla promessa di fecondità e discendenza ricevuta?

Ammettiamo che la nostra pazienza a volte, o spesso, è pari al tempo di un clic del mouse per cercare ciò che ci serve, adesso, su wikipedia… eppure se non ci lasciamo «scavare» nella e dalla pazienza restiamo solo alla superficie del buon terreno della vita. Il detto «se non vai in profondità, resti a mani vuote» vale per ogni essere umano ed è evidente che la fretta non favorisce mai la fiducia! Accettiamo che i tempi di Dio non sono i nostri e in sintonia con papa Francesco possiamo esser certi che, prima o poi, egli interviene «a modo suo». Per questo non dobbiamo farci prendere dall’impazienza o dallo scetticismo, anche perché quando ci scoraggiamo e «decidiamo di scendere dalla croce, lo facciamo sempre cinque minuti prima della rivelazione» (in L’Osservatore Romano, sabato 29 giugno 2013).

Un secondo rilievo è che il divenire del chicco che muore avviene misteriosamente, ma non casualmente. C’è Qualcuno che irriga e dona il calore del sole.

Anche se il chicco non vede il suo futuro di splendida spiga piena di frutti, anche se si sente marcire, magari si pensa inutile, proprio allora fa un atto di fede, e lo fa cantando il primo Salmo «Il Signore veglia sul cammino dei giusti». Più che «veglia» sarebbe corretto tradurre che «il Signore conosce il cammino» dei suoi figli, quella conoscenza che ha a che fare più con l’intimità che con l’intelletto, come se Egli sperimentasse lo stesso nostro cammino… in effetti noi cristiani vediamo in Gesù l’uomo dei dolori che ben conosce, è familiare con il patire degli uomini (Is 53,3).

Anche nell’aridità e nel buio, anche se il Signore pare che se ne stia a dormire, occorre dunque gridare ancora più forte la Sua presenza: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

Lo stelo è il deserto della purificazione, la spiga è la pienezza del regno

Al livello della riflessione di Carlo, questo deserto è la nostra condizione intermedia dopo la morte, perché il chicco si sa che non ha vita lunga. Nella stessa logica del divenire ci sarà modo per l’uomo di guardare indietro, a tutto l’amore che non ha saputo o voluto dare, vuoi per ignoranza, vuoi per debolezza.
Questa maturazione si concretizzerà in uno spogliamento progressivo di tutto ciò che pesa sullo spirito, un fuoco purificatore che sarà il fuoco dello stesso amore di Cristo. Ma possiamo azzardare che, accolta la rivelazione della vita eterna in Gesù risorto, tutte le situazioni e le persone intorno a noi vadano ormai considerate a partire dalla fine, dal fine: dalla spiga che è la comunione e il banchetto eterno con il Signore nel suo regno. Tutto, situazioni e persone… ecco che questo sguardo «dall’alto», dal «non ancora» ci apre e ci invita a contemplare già oggi gli altri – soprattutto i fratelli che non ci vanno a genio – con gli occhi di Dio, come afferma meravigliosamente Carretto in un altro testo:

Sì, Dio ama nell’uomo ciò che non c’è ancora, ciò che deve ancora nascere. Noi in un uomo amiamo ciò che c’è: la virtù, la bellezza, il valore ed è per questo che il nostro amore è così interessato e fragile. Dio amando ciò che non c’è e facendo fiducia all’uomo lo genera continuamente, perché è l’amore che genera… la cosa è così bella che Dio ci invita a fare altrettanto. La carità che ci trasmette è proprio questa possibilità di amare nel fratello le cose che non esistono in lui (Padre mio, mi abbandono a te , 132-133).

È lo sguardo contemplativo che troviamo anche alla fine del testamento di Christian de Chergé nei confronti del futuro assassino:

E anche te, amico dell’ultimo minuto che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo “grazie”, e questo “a-Dio” nel cui volto ti contemplo.
E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due.
Amen! Inch’Allah.


Paura di Dio? Se Dio è Amore non mi colpisce alle spalle come un nemico […]

Carlo ripeteva ovunque il salmo 131, «come un bambino in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia», canto dell’infanzia spirituale. In ogni suo libro sembra proprio rivolgersi a Dio come un bambino farebbe con i suoi genitori e il bambino è capace di gioire pienamente dei doni che riceve perché sa che da solo non può fare nulla… Fidarsi come un bambino in braccio a sua madre, a suo padre, è il segreto della semplicità, dell’umiltà, di quella piccola via che Teresa di Lisieux ha mostrato essere praticabile per tutti! Non crediamo in questa via dell’umiltà e della confidenza semplicemente perché ce lo dicono i santi; i santi la percorrono come via eccellente proprio perché è quella della figliolanza di Gesù stesso, che punta tutto sull’eredità del Padre.

Dunque la questione è scegliere tra fidarci di noi stessi oppure chiedere allo Spirito la grazia di vivere nel quotidiano il Padre Nostro che proclamiamo con le labbra.

Chiediamo al Signore Gesù il dono della pazienza, chiediamogli di credere davvero che tutto, ma proprio tutto è grazia! Chiedamogli questo sguardo dall’alto, da risorti, chiediamogli la grazia di non avere paura della strada che ha tracciato con il Suo passaggio sulla terra, chiediamogli la serena fiducia dei bambini per entrare come Lui, da figli, nel regno.

«La vita è un cammino e le nostre scoperte si susseguono a poco a poco e la nostra fede si forma a poco a poco. Ciò che conta è restare umili e vicini molto a Gesù» (El Abiodh. Diario spirituale, 54).

fratel Giovanni Marco jc

(Vedi testo integrale in «Jesus Caritas – Famiglia Carlo de Foucauld», n. 145, gennaio 2017).